Qualche domanda sul “Personale”

A colloquio con Franco Tatò, Amministratore delegato dell’Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani.

Appena il Professor Tiraboschi ci ha proposto la pubblicazione delle interviste in un unico volume, abbiamo pensato che a conclusione di questo lungo percorso si potesse dialogare con un manager che ha fatto la storia come Franco Tatò, con alle spalle importanti e numerose esperienze in alcune fra le più importanti realtà imprenditoriali italiane e internazionali.

È davvero complicato riassumere in poche righe la storia di questo manager nato a Lodi nell’agosto del 1932, laureato in Filosofia, e che nel 1956, a ventiquattro anni, fa il suo ingresso nel Gruppo Olivetti, dove maturerà un’esperienza professionale diversificata  e decisiva per la sua carriera, come non si stanca mai di ripetere.

Nel 1970 , dopo una parentesi di cinque anni alla Olivetti Général Electric come responsabile del marketing Internazionale, arriva al timone di comando di Austro Olivetti prima e British Olivetti poi, in qualità di Amministratore Delegato, per poi ricoprire, sei anni più tardi, la stessa carica alla Deutsche Olivetti, dove rimane fino al 1980, prima di assumere l’incarico di Direttore vendite estere del Gruppo Olivetti.

Lasciata la Olivetti, dal 1982 ricopre la carica di CEO della società Mannesmann-Kienzle di Villingen-Schwenningen, sempre in terra tedesca, e nel 1984 raggiunge l’Arnoldo Mondadori Editore come Amministratore Delegato. A partire dall’86 è CEO della Triumph Adler AG, società del Gruppo Olivetti del quale diventa Amministratore Delegato della Olivetti Office e che lascia nel 1990. Nel 1991 Silvio Berlusconi lo richiama alla Mondadori come Amministratore Delegato, cui si aggiungerà l’incarico, dal giugno 93 ‘ a fine 94, di Amministratore Delegato del Gruppo FININVEST .
Nell’estate del 1996 viene chiamato da Romano Prodi alla guida dell’Enel, dove riesce a trasformare l’ex-ente elettrico in un’azienda leader nella fornitura di servizi, grazie a una serie di operazioni che porteranno il colosso italiano ad esplorare anche il segmento delle telecomunicazioni e a varare, qualche anno più tardi, Enel.it, un ramo d’azienda col compito di dare al gruppo la piattaforma informatica necessaria per creare la rete di business per il futuro. Oltre alla quotazione di ENEL alla Borsa Valori, alcune realizzazioni significative sono state lo sviluppo e l’introduzione dei contatori elettronici e d ENEL GREEN POWER, leader mondiale delle energie rinnovabili.
“La mia esperienza professionale mi ha portato a lavorare nella funzione Personale di Olivetti per circa una dozzina di anni, sia in Italia sia all’estero: mi sono familiari le dinamiche che la contraddistinguono, così come i cambiamenti di cui è stata oggetto” ci spiega il nostro ultimo interlocutore che dall’agosto 2003 ricopre la carica di Ad dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani.

Dottor Tatò, diverse e multiformi sono le interpretazioni che i manager d’azienda danno della funzione HR. Quale ruolo deve assolvere, a suo avviso, la Direzione Risorse Umane, anche in ottica futura e tenendo conto dei cambiamenti che hanno modificato l’impostazione negli anni?

Per rispondere alla vostra domanda devo fare un passo indietro nel mio passato professionale. Quando entrai in Olivetti nel ‘56, l’azienda per i primi 6 mesi mi assegnò come operaio alla linea di montaggio della fabbrica di Ivrea; personalmente ritengo quel periodo uno tra i più utili per me dal punto di vista formativo, perché operare in catena di montaggio mi ha aiutato a comprendere le priorità e i valori di coloro che vi lavoravano.
In quegli anni Olivetti era una realtà all’avanguardia sul versante HR: soprattutto per ciò che concerne i rapporti sindacali, la responsabilità sociale dell’impresa e il rapporto con il territorio. I piani urbanistici del Canavese e le realizzazioni nei servizi sociali sono entrati nella storia industriale dell’Italia del dopoguerra. A fronte di questo l’impostazione dei processi di lavoro, sia tecnici che commerciali, era innovativa, ipertecnica  e ad alta produttività. La mediazione della funzione HR fu essenziale per lo sviluppo dell’azienda e per la consapevolezza del management, fortemente motivato per il raggiungimento dei risultati. Oggi, rispetto a un tempo, è cambiato il modo di interpretare la funzione del Personale che consiste però di un insieme di attività che esistono da parecchio e che sono ancora oggi le medesime,  mi riferisco a temi come la verifica delle risorse disponibili e la valutazione delle stesse, l’elaborazione di piani retributivi, il controllo dei budget e delle spese, i rapporti con i sindacati, i piani di formazione e sviluppo. Ciò che è cambiato sono le modalità operative. A queste possiamo oggi aggiungere il knowledge monitoring. A seconda dei tempi vi son funzioni sulle quali un’impresa può decidere di investire maggiormente rispetto ad altre; se dovessi scommettere su quella del futuro, direi senz’altro il knowledge monitoring management perché , a  mio parere, il livello di conoscenza diffuso e accumulato nell’impresa diventerà il vero vantaggio competitivo in una società dematerializzata.

Ci ha descritto il mondo Olivetti come una realtà estremamente dinamica, con al suo interno un insieme di professionalità importanti. Vista la loro rilevanza, come implementare le conoscenze all’interno delle aziende?

Penso che il canale su cui puntare sia l’innovazione, sempre e comunque. È evidente il fatto che, oggi, l’evoluzione informatica dovrebbe incidere considerevolmente sui modelli organizzativi delle imprese. Dal 1930 alla fine degli anni 80 i nostri modelli organizzativi erano basati su diversi e molteplici livelli decisionali articolati a piramide più o meno acuta, strutturalmente lenti. Abbiamo proseguito su questa strada fino a quando, almeno nei casi di informatizzazione più riuscita, abbiamo cominciato a trasformare i modelli con una drastica riduzione dei livelli gerarchici, velocizzando tutti i processi decisionali. È nata l’organizzazione piatta e permeabile con tempi di attraversamento ridotti al minimo. L’informatizzazione aumenta esponenzialmente l’integrazione delle informazioni e rende quindi superflui i passaggi gerarchici, corrispondenti a diversi livelli di valutazione. La trasformazione non è stata indolore anche perché ha interessato i cosiddetti quadri intermedi, una specie in via di estinzione. L’HR ha dovuto e deve tutt’oggi gestire questo processo di trasformazione quale agente del cambiamento e affrontare tutti quegli elementi di resistenza al mutamento delle condizioni, che sono il vero ostacolo allo sviluppo della competitività . E la tecnologia può essere lo strumento in grado di garantire maggior trasparenza nell’operato degli addetti ai lavori.

Cambiare l’organizzazione e, ancor prima, la cultura delle aziende è un’operazione assai complessa. Può raccontarci qualche esperienza a riguardo?

Appena arrivato all’ Enel, mi feci descrivere la possente piramide organizzativa del grande monolite e i suoi principi ispiratori.  A parte ogni considerazione sui numeri ridondanti, le unità organizzative avevano la stessa struttura indipendentemente dal tipo di funzione e dalle dimensioni. Un grosso problema, ma anche una grossa opportunità: la possibilità di liberare le potenzialità inespresse tanto più evidente in quanto l’azienda aveva, oltre a grandi competenze diffuse, una popolazione di giovani assunti senza una vera necessità e quindi sottovalutati. Si doveva avere il coraggio di fare scelte coraggiose per  cambiare la cultura aziendale nel medio periodo e migliorare decisamente il conto economico nel breve. La funzione HR ebbe un compito fondamentale, perché dovette accompagnare la trasformazione organizzativa con un piano di pensionamenti, prepensionamenti e uscite incentivate senza sostituzione, ovvero con sostituzioni interne. In quegli anni si fece la separazione prima contabile e poi societaria delle funzioni di base: produzione, trasmissione, distribuzione di energia elettrica, e furono riorganizzate tutte le funzioni di staff in preparazione della quotazione in borsa, alla quale quotazione l’azienda arrivò con trentamila persone di meno. Un episodio significativo fu il pensionamento di tutti i vicedirettori generali e direttori centrali senza sostituzione, le cui funzioni vennero assunte da me con un direttore generale in staff. Di quell’epoca e delle persone che mi aiutarono conservo un ricordo straordinario e non ne parlo per non diventare sentimentale.

Quanto è stato importante il canale comunicativo per veicolare quel cambiamento che ci ha appena descritto?

Moltissimo e vorrei fare un ragionamento più ampio al riguardo: in azienda è bene che sia presente e ben impostata una comunicazione interna basata sulla totale trasparenza. L’HR, in tal senso, è stato chiamato a rivedere il suo profilo negli anni, abbandonando quella immagine di “segretezza” che lo connotava. La percezione di quanto sia importante la devo più alla Général Electric che all’Olivetti.      Aggiungo che tutta le mie esperienze, anche quelle fallite, mi portano ad affermare che la gestione democratica dell’impresa si è sempre dimostrata una scelta di valore, perché in grado di far emergere l’equazione base su cui dovrebbe poggiare il rapporto dipendente-imprenditore: il futuro dell’impresa è il futuro dei lavoratori.

Olivetti: un’azienda mito del tessuto imprenditoriale italiano che fu. Può raccontarci un aneddoto legato alla sua esperienza lì nella direzione del Personale?

Come ben sapete Olivetti nella seconda metà degli anni sessanta era ancora un’azienda all’avanguardia nel suo campo. Ero appena stato nominato responsabile del personale della Olivetti Général Electric, con stabilimento a Caluso. In quel periodo ebbi il primo incontro sindacale presso l’Unione Industriali di Torino, programmato alle 15:30 di un giorno feriale. Arrivai all’appuntamento puntuale ma non trovai nessuno dei miei interlocutori, benché stessi aspettando, come si usava all’epoca, circa una quarantina di persone. Le delegazioni sindacali arrivarono in ritardo e l’incontro cominciò alle 17:30. Appena iniziato l’incontro informai la controparte che me ne sarei andato alle 18:00 e che non era mia intenzione stare oltre quell’orario perché ero un impiegato dell’azienda e non era mia intenzione fare degli straordinari. Diciamo che ero in linea con quanto rivendicava il sindacato quando si dichiarava contrario agli straordinari! Ovviamente il giorno dopo fu dichiarato uno sciopero di mezza giornata, ma quella mezz’ora di confronto l’ho guadagnata negli anni successivi sui tavoli di trattativa delle vertenze sindacali, perché il messaggio era arrivato chiaro: quando ci si incontra si fa sul serio, a cominciare dall’orario.

Cambiamo discorso, il mercato del lavoro italiano sembra soffrire di un’impostazione troppo rigida. Qual è la sua opinione sul punto?

Penso che l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori abbia rovinato l’Italia, mi domando come possa essere giustificata dal punto di vista costituzionale una norma che discrimina i lavoratori/cittadini, essi dovrebbero essere tutti uguali! Qualcuno mi deve spiegare perché  la giusta causa non si debba applicare ai dipendenti di piccole imprese o ai dirigenti: che per licenziare un lavoratore ci debba essere un serio motivo, una giusta causa, mi sembra banalmente ovvio, ma che la legge non abbia mai definito quali sono le giuste cause e le procedure di verifica, è un vuoto normativo inaccettabile. Questa lacuna è stata prontamente colmata dalla magistratura che ci ha indicato cosa sia la giusta causa e, nel contempo, ha disposto la reintegrazione in azienda anche di dipendenti che  si sono resi responsabili di atti talmente gravi da non poter più rientrare all’interno dell’impresa. Questa impostazione a ben vedere è stata un colpo durissimo per il sistema produttivo, che per trovare soluzioni al problema, ha dovuto ricorrere ad astuzie e cercare margini che hanno generato costi esorbitanti per il tessuto industriale, ma ancor più gravemente hanno eretto l’ipocrisia a valore regolatorio dei rapporti industriali.
Inoltre, mi sembra evidente come questo impianto normativo e giurisprudenziale abbia favorito un ricorso smisurato alla magistratura che, in un certo senso, svuota di significati il ruolo delle relazioni industriali: ormai si è verificata una vera e propria ingessatura dei rapporti tra le parti a fronte del fatto che molte questioni sono già state decise dai giudici.
L’articolo 8 delle recente manovra finanziaria, cerca invece di introdurre quello che è avvenuto in Germania in modo spontaneo, cioè la possibilità di negoziare  condizioni liberatorie e peggiorative pur di salvaguardare il futuro dell’azienda. In Italia è difficile che si affermi un’impostazione così innovativa in quanto mi pare evidente che non ci sia una vera e condivisa percezione di ciò che realmente sta accadendo al Paese e alle imprese…

Spesso durante le nostre interviste abbiamo chiesto un’opinione sul sistema di partecipazione dei lavoratori agli utili e alla gestione d’impresa: ritiene che tale impostazione possa rappresentare un’esperienza positiva per le imprese italiane?
È un dibattito ormai antico quello sulla partecipazione agli utili del fattore lavoro, ovviamente oltre la retribuzione, e sul sistema tedesco di cogestione: credo che se ci fosse stato un vero  interesse delle parti, in tanti anni qualcosa si sarebbe fatto. Se poi la soluzione fosse simile al grottesco sistema duale introdotto per moltiplicare le poltrone senza cambiare nulla di sostanziale, allora forse è meglio non fare nulla. Il sistema di cogestione è inoltre parte di un più complesso  articolato di regole di gestione e controllo dell’impresa che forma un tutto inscindibile. Mi limito a citare il funzionamento del Comitato Economico  presente da tempo all’interno     delle imprese tedesche, un istituto che svolge una funzione di assoluta importanza nelle dinamiche aziendali. Esso si raduna periodicamente in sedute alle quali partecipano i manager e il consiglio di fabbrica composto dai dipendenti oltre ad un rappresentante del sindacato unitario, ed ha il compito di  controllare la gestione dell’impresa: una specie di due diligence congiunta.
Viene naturale pensare a problemi legati alla riservatezza delle informazioni, anche perché il comitato ha diritto di accesso a tutte le informazioni: ebbene nella mia esperienza pluriennale non si è mai verificata una fuga di notizie. È solo un sintomo di quanto sia serio l’impegno di tutti e anche indizio di una collaborazione vera tra impresa, maestranze e sindacati, di una partecipazione che permette di trovare le ragioni necessarie per negoziare nuove condizioni, per il semplice motivo che anche i lavoratori sono a conoscenza della effettiva situazione dell’impresa e qualora si verifichino situazioni di difficile gestione, risulterebbe impossibile per loro dire “non lo sapevamo”.
La partecipazione ai lavori di questo organismo, se gestita in modo intelligente e trasparente, contribuisce alla formazione di una classe dirigente di lavoratori e sindacalisti e permette di attenuare la tensione dei rapporti tra le controparti: non è l’ultimo dei motivi per i quali in Germania si sciopera poco.

Uno dei maggiori problemi delle imprese italiane è legato al cambio generazionale, può darci una chiave di lettura per cercare di affrontare la questione?

L’Italia soffre perché i figli fanno troppo spesso il lavoro dei loro genitori, ma forse il vero problema risiede nel fatto che le seconde o le terze generazioni si dimostrano sempre meno competenti nella gestione dell’azienda e manca una seria tradizione su come formare e valutare l’erede. Porto come esempio “giovani” che nel loro percorso professionale hanno riportato modesti risultati, ma che ora ricoprono posizioni di rilevo con scarse conoscenze del business: è un meccanismo che penalizza coloro che hanno studiato e che saprebbero veramente gestire e sviluppare il business aziendale.
Tuttavia, ritengo sia un problema di civiltà industriale, perché in paesi come Germania e Regno Unito le prassi connesse alla successione aziendale sono completamente diverse, grazie a metodi di gestione del cambio generazionale ben congegnati inesistenti in Italia.
Mi spiego meglio: tutte le aziende nascono da un imprenditore capostipite, nel momento in cui quest’ultimo lascia l’impresa, l’azienda non può essere più considerata un bene personale, ma un patrimonio di interesse collettivo. Che la prima generazione sia costituita da persone con alti profili non può che essere un fattore positivo per la realtà industriale, ma se in un secondo momento entrano nei vertici aziendali giovani poco capaci, i rischi per l’impresa aumentano considerevolmente.
In Germania questo rischio è controllato grazie all’intervento delle banche nei Consigli di Sorveglianza, quale “tutela” dei loro interessi, le cosiddette banche di casa, e indirettamente di quelli dei cittadini. La Legge Costituzionale dell’Impresa ( Betriebsverfassungsgesetz) prevede poi per le aziende al di sopra di certe dimensioni una managerializzazione pluralistica. Così facendo, ove non ci siano i presupposti per proseguire con gli esponenti della famiglia a capo dell’azienda, questi sono costretti o a condividere con altri manager in modo paritetico il potere gestionale o più semplicemente a svolgere la funzione, molto importante, di azionisti interessati, salvaguardando in tal modo gli interessi di lungo periodo della collettività.

A suo parere è indispensabile, per un’azienda, la funzione del personale? C’è un momento in cui diventa indispensabile dotarsi di questo staff?

Sicuramente quando la dimensione aziendale assume proporzioni rilevanti diventa necessario dotarsi di una funzione HR, soprattutto in ottica di staff per l’amministratore delegato. Tuttavia nella piccola azienda dove è presente un rapporto diretto e personale tra maestranze e “padrone”, diventa complesso ipotizzare un ramo dedicato al solo ambito Risorse Umane.

Che cos’è, oggi a suo parere, il sindacato?

Più che di sindacato si deve oggi parlare di una pluralità di sigle sindacali di orientamento fortemente corporativo. Le grandi centrali conservano ancora qualche parvenza di mediazione dell’interesse generale, anche perché i loro iscritti sono in maggioranza pensionati, ma la profondità delle divisioni originate dalla polarizzazione della politica  è tale da rendere impossibile anche solo intravedere la possibilità di un progetto di riforma .Quello che si presenta oggi è un quadro di devastazione, quella provocata da un sindacato che negozia con il potere politico, senza per altro avere una investitura costituzionale o una legittimazione democratica, e non con le imprese: e questo è già in sé una aberrazione. Ovviamente possiamo desiderare che nasca un sindacato unitario, cosciente che si devono difendere gli interessi dei lavoratori, ma che le imprese devono svilupparsi e che gli interessi dei consumatori sono altrettanto importanti.

Quale rapporto ha avuto con i sindacati durante la sua carriera lavorativa ai vertici delle maggiori società italiane?

Personalmente ho sempre avuto ottimi rapporti con le rappresentanza sindacali, soprattutto quelle dell’impresa per la quale di volta in volta ho lavorato. Il rispetto e la stima reciproca aiutano a superare anche i momenti più difficili. Ricordo due eccezioni: il periodo   del 68’ nel quale era caduta ogni forma di rispetto e la RSU della Treccani. Al termine del mio servizio in Enel l’azienda aveva ridotto il numero dei dipendenti di circa 35.000 unità senza un’ora di sciopero, grazie ad accordi condivisi e firmati da tutte le sigle. In quell’occasione i sindacati hanno ben compreso le esigenze dell’impresa e l’hanno seguita sulla strada del rinnovamento, un risultato non banale se si pensa che ciò ha permesso all’ENEL di rinnovarsi, di essere competitiva e di contribuire in modo determinante all’apertura del mercato elettrico in Italia. Per quanto riguarda la mia esperienza tedesca, soprattutto in questo caso il rapporto col sindacato è stato importante e gratificante.  Dieci anni dopo aver lasciato la Mannesmann Kienzle, pesantemente ristrutturata e profittevole, il presidente del consiglio di fabbrica mi mandava gli auguri di compleanno: un gesto indimenticabile e una testimonianza che il fattore determinante è il rapporto personale.

Ci può raccontare un aneddoto di incontro/scontro con le sigle sindacali?

Quando lavoravo per la Triumph Adler  in Germania, la crisi delle macchine da scrivere si fece sentire parecchio, tanto da obbligarci a ridurre il personale del 10% nello stabilimento di Francoforte: stiamo parlando di circa 120 persone. Ora, per comprendere l’aneddoto è bene sapere che in Germania sono i sindacati, una volta trovato l’accordo, a dover indicare chi deve essere licenziato, mediando le esigenze familiari e quelle produttive. Ebbene, dopo l’accordo  sugli esuberi venne da me il presidente del consiglio di fabbrica e a quattr’occhi mi chiese  di licenziare 140 addetti, ma di assumere i 20 apprendisti che terminavano il contratto, perché gli apprendesti erano il futuro. Una grande lezione che ancora mi commuove.

Il sistema confindustriale sta mostrando forse le prime crepe di una struttura che, probabilmente, necessita anch’essa di un rinnovamento. In che modo può prendere nuovo slancio Confindustria? Inoltre, ritiene che sia stata un’opportunità per l’Associazione l’entrata delle società che facevano capo all’Intersind?

Per essere chiari, ritengo l’uscita di Fiat dal sistema confindustriale una vera disgrazia per quest’ultimo ed è il segnale che forse è venuto il momento di ripensare alla sua funzione e ai servizi che le imprese associate possono richiedere. Certamente adesso, per venire alla seconda parte della domanda, le aziende statali faranno valere ancor di più tutto il loro peso all’interno di Viale dell’Astronomia.
Quando iniziammo il nostro lavoro in Enel, il presidente Chicco testa ed io, ricevemmo una lettera da parte dell’allora Ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi che diceva in due righe: il vostro compito è privatizzare e razionalizzare. Altri tempi.
Allora mi venne di fare una riflessione: un’azienda di Stato è di proprietà dei cittadini e quindi è una vera public company anche in senso anglosassone, se viene gestita nell’interesse degli azionisti, cioè dei cittadini consumatori, e così è stato all’ENEL per un breve periodo, non dimenticando che per fare bene il proprio mestiere bisogna essere ampiamente profittevoli. In questo periodo particolarmente complesso e difficile ritengo che tutte le realtà industriali italiane debbano rimanere unite e trovare una leadership che punti alla liberalizzazione del sistema economico, anche se forse questo rimarrà un sogno.

Lei ha vissuto in prima persona i primi passi della privatizzazione di un’impresa partecipata dallo Stato. Si sono presentate criticità inaspettate che hanno cambiato i piani preventivati?

In realtà Enel, al mio arrivo, presentava una situazione molto migliore rispetto alle aspettative: era sì un ente di Stato, ma  con un vero orgoglio aziendale e ciò ha aiutato moltissimo nella trasformazione in SpA e nella eliminazione dei privilegi senza alcun particolare problema.
Tuttavia, anche in quest’occasione si sono presentate numerose criticità da risolvere come per esempio il cambio di mentalità dei manager: che la corrispondenza venisse firmate da una persona con il nome in chiaro e non spedita da un numero con due firme sgorbio, fu una rivoluzione.
Un aneddoto divertente riguarda le buste paga. Ottanta programmatori stavano lavorando a un nuovo sistema da tre anni, apparentemente perché la complessità della busta paga ENEL rendeva impossibile la terziarizzazione. Inutile dire che si trattava di una complessità apparente e che fu facile approfittarne per semplificare con soddisfazione di tutti la busta paga e terziarizzare il lavoro adibendo i programmatori a lavori più utili. La casistica delle finte criticità è numerosa ed esilarante.

Cambiamo tema. Molti evidenziano condizioni assolutamente sfavorevoli a livello sistemico per gli investimenti esteri in Italia; se è certamente difficile ipotizzare una soluzione totale del problema, quali potrebbero essere i primi passi da fare per aumentare l’attrattiva del Paese all’estero?

Sul tema sono molto critico. Non ci sono primi passi da fare per risolvere il problema, ritengo che ci siano criticità di fondo che vanno rimosse radicalmente e una serie questioni anche etiche da affrontare.
Provo brevemente a toccare in modo sintetico alcuni punti su cui sarebbe opportuno intervenire per rendere il nostro Paese maggiormente appetibile. In primo luogo andrebbe affrontata la questione giustizia, con una  vera riforma di ampio respiro: ridare alla società la certezza del diritto.
In secondo luogo limitare il cambiamento delle regole in corso d’opera in uno stillicidio continuo e inesorabile, ridurre le inutili complessità autorizzative e allontanare la politica dal business.
Un ulteriore punto da evidenziare sono i costi troppo elevati del sistema Italia, specie se raffrontati ai servizi che offre. Faccio un rapido esempio, forse banale, ma credo significativo: per una PMI quotarsi in borsa ha un costo che si aggira attorno al milione di Euro, mi sembra una cifra assolutamente insensata.
Infine, è sempre presente il tema cui si accennava prima, quello della rigidità del mercato del lavoro, ma non solo dal un punto di vista delle imprese, ma anche da quello dei lavoratori perché limita fortemente il c.d. ascensore sociale.
In conclusione penso sarebbe necessario affrontare con franchezza e determinazione il problema della corruzione diffusa e della malavita invasiva: forse è difficile intravedere una soluzione all’orizzonte, ma sarebbe bello se ci si provasse tutti insieme.

Quale consiglio darebbe a un giovane che desideroso di entrare oggi nel mondo del lavoro?

I giovani italiani dovrebbero emigrare dall’Italia e tornare in un prossimo futuro; sono numerosi gli italiani che hanno fatto carriera all’interno di multinazionali straniere, abbandonando un Paese che non li valorizzava, alla ricerca di un terreno più fertile per le loro competenze e per la loro voglia di affermarsi. Insomma, sono andati dove il merito effettivamente viene premiato o comunque dove esiste una misurazione dei risultati ottenuti. Nel frattempo cerchiamo di tornare alla meritocrazia, poi si potrà ricominciare.

L’apprendistato può essere una soluzione per il mercato del lavoro giovanile?

Assolutamente sì. Ciononostante per avere dei risultati positivi lo strumento deve essere organizzato seriamente e non com’è attualmente regolato in Italia, con le distonie presenti anche a livello di normativa regionale.
In Germania c’è un ottimo modello e basterebbe copiare quanto già fanno là per avere un ottimo dispositivo, funzionale alle nostre esigenze. Mi spiego, nella carriera professionale delle persone è fondamentale superare alcuni passaggi obbligati, per esempio per fare il medico è necessario saper fare l’infermiere. Diciamo che a Berlino l’apprendistato è una cosa seria e per questo funziona bene, inoltre le organizzazioni sindacali sono coinvolte in prima persona per contribuire a predisporre i programmi formativi.
Ipotizzare altri modelli simili potrebbe essere un inutile spreco di denaro e l’istituto rischierebbe di perdere il suo reale valore.

La recente “primavera araba” sta portando di riflesso nuovi cambiamenti nella struttura sociale europea: quali effetti ritiene possano verificarsi per il tessuto industriale italiano? La diversità in azienda sarà un valore o un nuovo fattore da gestire?

Sinceramente penso che sia già arrivato l’autunno…
Il tema della diversità è assolutamente di rilievo e lo sarà sempre di più. Il nostro modello di società non è sicuramente privo di difetti, ma conserviamo una tradizione di grande valore: il rispetto della persona, un punto che in altre culture non è presente con la stessa intensità. Penso che alcuni passaggi non debbano essere sottovalutati, la ricchezza della diversità si esprime nella rispettosa integrazione delle culture, ma noi non dobbiamo comunque rinunciare al sistema di valori su cui si basa la nostra vita  sociale. Per quanto riguarda la gestione HR purtroppo noi siamo abituati a vedere le diversità nella parte bassa della scala sociale e invece presto arriveranno ingegneri indiani di assoluto valore e con un alto tasso di competenza e competitività: questo creerà un problema molto più serio e forse stimolerà la ricerca di soluzioni migliori di quelle poliziesche che sembriamo prediligere.

Qual è stato, se c’è stato, un momento decisivo della sua vita per lo sviluppo della sua carriera professionale?

Io provengo dal mondo accademico e solo in un momento successivo sono entrato in Olivetti. Come potete immaginare ho vissuto un grande cambiamento, anche se è stata un’opportunità per comprendere che sapevo fare anche altro.
Penso di aver vissuto alcune esperienze di grande valore che mi hanno fatto crescere professionalmente: il periodo in cui ho fatto l’operaio in Olivetti, il periodo passato in General Electric, quando divenni Amministratore Delegato dell’Olivetti in Austria, capendo che ero in grado di fare il manager.
Tuttavia, per comprendere quello di cui sto parlando è bene capire cosa voglia dire essere un manager, cioè colui che riesce a gestire i bisogni potenzialmente illimitati con risorse limitate: direi che stiamo parlando di una dote, di un talento, di una vocazione, più che di una disciplina che si apprende dai manuali..
Non posso negare che la predisposizione all’apprendimento e alla sperimentazione mi ha aiutato molto nelle mie esperienze in Enel, Mondadori e in Olivetti.

Dottor Tatò, chiudiamo con un sorriso: tempo fa Silvio Berlusconi disse di lei scherzando “Quando Franco Tatò mi guarda mi sento un costo da abbattere”. Conferma la veridicità di questa battuta?

Ricordo bene quando fu detta questa frase: era il giorno della mia nomina come Amministratore Delegato di Fininvest. Lo ha detto lui e avrà ben saputo di cosa parlava.

 

Questa voce è stata pubblicata in Senza categoria. Contrassegna il permalink.